Le porte della percezione
Jim Morrison “Dioniso del rock”

“M’interessa qualunque cosa abbia a che fare con la rivolta, il disordine, il caos”. E’ tornato in vita per una sera il “Re lucertola”, nell’anniversario esatto della sua morte, avvenuta il 3 luglio di 50 anni fa a Pesaro è andato in scena un rito collettivo di omaggio ed evocazione. 

 

Quando Jim Morrison sale sul palco “qualcosa si incrina, muta, si rigenera” ha esordito Cesare Catà, e senza ombra di dubbio così è stato anche per gli ospiti di Popsophia, che accompagnati dalla musica live della band Factory, hanno riportato alla vita l’essenza di Jim Morrison in una serata che ha unito tutte le arti in una deflagrazione caleidoscopica come nel migliore dei paradisi artificiali. Un pubblico numerosissimo nell’ultima serata di Popsophia, in cui ancora una volta cultura pop e filosofia si sono uniti in un’armonica blasfemia, a ricordare che i limiti della speculazione esistono solo nell’artificio della convenzione. Uno spettacolo immenso, che ha da subito irretito la platea con una luce soffusa che aveva di eterno ritorno, una sorta di epica ringkomposition, che non a caso ha inizio con The end, La Fine, brano del 1967 che racconta la fine di un amore, dell’adolescenza, ma anche molto di più: la fine di un’epoca. Questo ha infatti significato la morte di Morrison, che dopo aver sconvolto una generazione e rivoluzionato il mondo della musica e oltre, esce di scena in punta di piedi rimanendo un’icona assoluta del rock, avvolto in quell’aura di mistero che l’ha reso, forse suo malgrado, il fenomeno pop più indagato di sempre. È il critico musicale Carlo Massarini a riprendere le radici del miracolo Doors che ha dato vita a un’esperienza letterario-musicale senza precedenti, che, come in una sorta di rito dionisiaco, mesce la poesia della beat generation, quella dei poeti maledetti francesi e un’incredibile dose di sensualità e carisma. Carisma che fa di Morrison un fuoriclasse del live che non risulta mai istrionico, la cui teatralizzazione fuori e dentro il palco non è mai fine a sé stessa, ma ha lo specifico obiettivo di creare quell’atmosfera mistica del rito collettivo. Nella produzione dei Doors confluiva però anche l’impegno, risultato della vigile osservazione della realtà circostante, quella ad esempio dello scempio della guerra in Vietnam, che ha portato alla stesura di The Unknown Soldier, a dare ancora una volta la dimensione della poliedricità di un Morrison che è sempre soprattutto poeta.

 

Se con l’intervento di Massarini è stato possibile andare nel profondo della storia di Morrison, della vicenda biografica che ha del mitico, è con Cesare Catà che il mito ha preso vita, collocando Morrison una dimensione che trascende il temporale. Con eziologico trasporto, Catà si è rifatto alle origini del mito, quando sulle soglie dell’epos si affaccia la menis, frequentemente tradotta come “Ira funesta”, ma che Catà suggerisce essere piuttosto quello spirito dell’outcast in grado di rifiutare un universo normativo e valoriale che gli sta troppo stretto, in cui non si riconosce, quasi non appartenesse alla schiera umana stessa. La menis è quella che porta Achille a ritirarsi dalle battaglie di Ilio, ed è anche quella che porta Morrison ad andarsene da Los Angeles e accogliere in sé quello stesso spirito in grado di sovvertire un ordine che non sente proprio, poiché come lui stesso dirà “Mi piace tutto ciò che riguarda la trasgressione o il rovesciamento dell’ordine costituito. M’interessa qualunque cosa abbia a che fare con la rivolta, il disordine, il caos”. Morrison allora stato mandato sulla terra per ricordare agli uomini che la vita senza sregolatezza non può esistere, in quella dualità tra metamorfosi e superamento estatico dell’Io che in Morrison suggerisce inevitabilmente l’accostamento a un divino altro, e quale altro Dio se non Dioniso, con cui Cesare Catà suggerisce una vera e propria personificazione. Ricorrendo ancora una volta al mito, Catà si immagina una versione alternativa di quella sera del 3 luglio 1971, durante la quale Morrison non sarebbe affatto morto, bensì caduto addormentato su una panchina, e che più tardi Zeus passando per i cieli parigini abbia riconosciuto suo figlio e se lo sia portato via con sé, in attesa del momento propizio per farlo tornare sulla terra e farcene di nuovo godere l’arte. In seguito a questa serata, forse saremo finalmente convinti che una netta linea di demarcazione tra mondo sacro e profano, spirituale e carnale, bene e male non sia poi così definita, e tanto meno importante, e che in questo momento di rinascita si possa veramente pensare di riedificare partendo dal centro, laddove si trova la nostra umanità sopita.

 

Camilla Forlani